Nel racconto collettivo, le donne delle organizzazioni mafiose sono sempre vissute in un cortocircuito narrativo. Da un lato invisibili, sottomesse, “angeli del focolare” silenziate dentro famiglie-patriarcato fortemente gerarchiche. Dall’altro, negli ultimi anni, sono diventate icone glamour, oggetti estetici da copiare nei reel di TikTok e nei post su Instagram, trasformate in “mob wives” sensuali e determinate. 

Ma cosa resta della verità in questi immaginari? E soprattutto: a chi giova questa rappresentazione?

Dentro la famiglia mafiosa: reggono l’impalcatura, ma restano nell’ombra

Nel cuore pulsante delle organizzazioni mafiose, la famiglia non è solo un contesto affettivo, ma il primo spazio di formazione, controllo e trasmissione del potere. Le donne ne sono le fondamenta. In Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra, la famiglia non è mai neutra: è un microcosmo in cui si saldano affetti, affari e ideologia criminale. In questo scenario, le donne hanno ruoli strategici e tutt’altro che marginali. 

Sono loro a custodire le regole e a educare i figli ai codici dell’onore mafioso, alla vendetta, alla lealtà verso il clan, all’omertà come valore fondativo. La madre è la prima garante della trasmissione culturale della mafia e spesso, come dimostrano decine di testimonianze giudiziarie, è proprio lei a preparare i figli a sostituire il padre detenuto, a perpetuare la “dignità” del nome mafioso. Allo stesso tempo, le donne diventano vere e proprie amministratrici: gestiscono i flussi di denaro, tengono i contatti con gli affiliati, garantiscono la logistica della latitanza, trasmettono messaggi dal carcere, riciclano denaro in attività commerciali legali. Nei quartieri a forte presenza mafiosa, il loro ruolo è riconosciuto anche pubblicamente: a volte è il loro solo nome, e non quello dei mariti, a bastare per incutere rispetto o timore. La “moglie del boss” è una figura centrale nella rete di relazioni di potere mafioso: organizza matrimoni strategici, mantiene la pace tra famiglie, sorveglia e regola la condotta delle donne più giovani. È, in sostanza, una manager del crimine familiare, ma senza i riconoscimenti formali di chi siede ai vertici.

Eppure, questa operatività resta offuscata da una narrazione ufficiale (giudiziaria, culturale e pop) che continua a descriverle come donne fedeli, ignare o vittime. Invece, molte di loro non solo conoscono perfettamente la struttura mafiosa, ma contribuiscono attivamente alla sua riproduzione quotidiana, fino a sostituirsi ai mariti detenuti o latitanti. È questo il volto più inquietante del potere sommerso: un’autorità silenziosa che passa dal cucinare per i boss al gestire i riti familiari, fino a controllare interi territori.Seppur definite pubblicamente “panze lente”, quindi incapaci di mantenere i segreti dell’organizzazione a differenza dell’entità maschile definita “di panza”, da sempre il loro ruolo interno è fondamentale. Le donne vengono solitamente escluse dalla ritualità del gruppo e dalle consacrazioni degli “uomini di panza” ovvero dei veri leader, eppure silenziosamente muovono i fili necessari al reale funzionamento della struttura. Le donne attraverso modalità e strategie comunicative diverse, si sono fatte garanti di una continuità nella trasmissione di valori e messaggi, che grazie al loro operato sono passati di generazione in generazione. 

Il loro potere è spesso silenzioso ma capillare. Nelle cosche napoletane, non solo tengono insieme i clan attraverso matrimoni strategici, ma impongono rispetto attraverso la fama del marito carcerato, gestiscono affari e si occupano del recupero crediti con toni minacciosi e linguaggio di guerra. In alcune zone, sono loro a guidare i gruppi di fuoco, come nel caso di Chiara Manzi nel Vallo di Lauro. E quando serve, sono loro a convocare conferenze stampa, come Pupetta Maresca fece nel 1982, anticipando di decenni le donne boss di oggi.

Memoria e immaginario: le mafie raccontate dai media

Se, come scriveva Pierre Nora, “l’immaginario è storia”, allora è inevitabile osservare come i media, e in particolare oggi i social, abbiano trasformato il modo in cui collettivamente percepiamo le mafie. La narrazione cinematografica ha dato forma a un’estetica iconica del potere criminale, in cui la mafia diventa genere, stile, immagine. Ma nel passaggio tra cinema e social, ciò che prima veniva raccontato come finzione oggi è assorbito come lifestyle.

Nel mondo dello spettacolo, questa dinamica è stata filtrata e amplificata. Le immagini di Carmela Soprano, che indossa tailleur pastello con bracciali d’oro spesso abbinati a uno sguardo glaciale, non sono frutto del caso. Dietro quel look si cela la consapevolezza di essere parte del potere, pur fingendo di non saperne nulla. Oppure Karen Gravano, figlia del pentito Salvatore “Sammy the Bull” Gravano e protagonista del reality Mob Wives, che ha raccontato con orgoglio la sua eredità familiare, contribuendo a cementare uno stereotipo visivo fatto di unghie lunghe, trucco marcato, abiti aderenti e lusso ostentato, ma anche di fedeltà familiare e gestione dell’onore. Persino Victoria Gotti, figlia di John Gotti, boss della famiglia Gambino, ha contribuito a codificare un’estetica Mob Wife nel mondo reale. La sua presenza nei media americani nei primi anni 2000, tra talk show, libri e reality show, ha esibito una figura di donna sofisticata, elegante ma indurita: capelli perfettamente cotonati, tailleur di marca, occhiali da sole Chanel, pelle bronzea e labbra perfettamente contornate.

Tutte queste donne,  reali e fittizie, hanno contribuito a un archivio visivo che oggi TikTok e i social stanno remixando. Ma mentre l’estetica si riduce a moodboard e filtri glamour, il contesto originario era fatto di omertà, violenza domestica, complicità morale, e, in alcuni casi, potere decisionale nascosto dietro a una tenda di velluto. Ed è proprio qui che sta la complessità della Mob Wife Aesthetic: non è una semplice tendenza da copiare, ma il risultato stratificato di immagini, storie e potere femminile deviato, in cui lo stile racconta — e spesso maschera — realtà profonde e talvolta scomode.

Così, figure femminili complesse diventano ispirazione per una generazione che su TikTok copia non la loro vita, ma il loro outfit, romanticizzando ruoli e relazioni che, nella realtà, sono segnate da violenza, controllo e subordinazione. Il trend della “mob wife aesthetic” è la punta più visibile di un immaginario che ha neutralizzato il significato politico e storico della mafia, trasformandola in contenuto virale. Vengono idealizzate storie d’amore dove l’uomo si trova in prigione “ingiustamente” e la donna lo aspetta a casa fiera del proprio lui, che si è battuto contro l’ingiusto sistema statale. Su TikTok, nello specifico, troviamo “in trend” tra le storie d’amore da sognare quella di Emanuele Sibillo (il babyboss morto ventenne) e Mariarka. La donna del babyboss viene innalzata dalle masse in quanto esempio di fedeltà da seguire, l’audio dell’ultima chiamata tra i due diventerà di pubblico utilizzo per le dediche sui social da parte delle compagne dei membri delle organizzazioni illegali. Interessante notare che, per quanto Mariarka diventi “l’ispirazione” di molte, in pochi conoscono il suo cognome essendo semplicemente ritenuta “la donna di”.  

Una femminilità rifunzionalizzata, ma non libera

Il problema non è solo estetico. Il punto è che questo tipo di narrazione contribuisce a svuotare il fenomeno mafioso del suo significato violento, oppressivo e profondamente patriarcale. Trasformare la “donna del mafioso” in una fantasia di empowerment estetico significa ignorare i meccanismi profondi di subordinazione, manipolazione e sfruttamento che governano questi mondi. Non parliamo di emancipazione. Il potere delle donne nella mafia non nasce da un processo di liberazione, ma dalla necessità del sistema criminale di sopravvivere anche quando gli uomini vengono arrestati o uccisi. La donna diventa quindi soggetto d’azione, ma in un perimetro costruito su regole maschili, che ne riutilizza le funzioni tradizionali quali: la cura, gestione, silenzio, per mantenere l’ordine criminale.

Nelle famiglie di camorra napoletane, alcune donne,  definite “maeste”, operano in modo autonomo e aggressivo, gestiscono traffici e impartiscono giustizia. In Sicilia e Calabria, spesso il loro potere è più silente, delegato alla memoria e alla custodia dei valori mafiosi. Ma in tutti i casi, ciò che emerge è una figura tutt’altro che passiva: sono forze vive del conflitto.

Riflettere su questi temi oggi è urgente. Soprattutto mentre gli algoritmi dei social alimentano narrazioni tossiche che riscrivono mitizzando modelli criminali e li rivestono di lustrini. Dietro a ogni pelliccia, c’è una storia di oppressione. Dietro a ogni rossetto scuro, c’è una rete di potere costruita sulla violenza. E dietro ogni look da mob wife, c’è una cancellazione della realtà storica delle “panze lente” che vivono o sopravvivono  dentro le mafie. L’estetica della “donna del mafioso”, così com’è rappresentata, è l’ennesima forma di invisibilizzazione del vero potere femminile: quello che, nella storia, ha saputo anche ribellarsi, rompere i legami, testimoniare, scegliere di stare altrove.

Il compito di oggi è quello di smontare queste narrazioni pop, riportare il discorso al suo peso politico e restituire complessità a figure che,  per troppo tempo,  sono state o idealizzate o demonizzate. Ma mai ascoltate davvero.

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