Seconda tappa: le “bellezze vive”
In precedenza abbiamo tracciato un percorso che ci ha condotti alle radici più profonde del legame tra la ritualità di “dare sessualmente” il corpo femminile e l’arte. Abbiamo visto come, sin dalla preistoria, le donne siano state al centro di pratiche simboliche e culti religiosi che hanno utilizzato la loro sessualità come strumento di connessione con il divino e di sopravvivenza sociale. Dalle Veneri preistoriche alla prostituzione sacra nei templi mesopotamici, l’oggettificazione sessuale femminile ha assunto un ruolo centrale nella rappresentazione artistica e nei riti collettivi, spesso svuotato di identità individuale ma carico di significati culturali.
È da questa prospettiva che ci addentriamo nel successivo “capitolo”, per proseguire nell’indagine delle forme di rappresentazione e sfruttamento, andando oltre il culto e il mito, verso la strutturazione sociale e artistica delle epoche successive.
L’Arte: il mezzo che supera la morte
Gli affreschi egiziani affascinano da sempre il mondo occidentale, considerati il racconto di un quotidiano lontano e impossibile da conoscere in altro modo. Eppure, per gli egizi non furono una semplice narrazione o decorazione, bensì il mezzo per superare la morte. In quell’epoca, l’essenza vitale del morto, il ka, per poter continuare a esistere nell’aldilà, aveva bisogno di nutrirsi, tant’è che le famiglie e i sacerdoti depositavano nelle tombe offerte alimentari.
Ma cosa sarebbe successo una volta che anche la famiglia del defunto si fosse estinta?
I testi sacri raccontano come il vero termine della vita, il ka, trovandosi senza nutrimento, sarebbe stato costretto a cibarsi dei suoi escrementi, fino a scomparire. Per scongiurare tale eventualità, gli egizi ricorrevano alla magia della pittura o dei bassorilievi: era sufficiente rappresentare un oggetto perché questo diventasse reale. L’Arte era il mezzo per far proseguire la propria esistenza e collegare intimamente il mondo dei vivi con quello dei morti.
Se all’atto creativo artistico veniva dato tale potere, non era da meno il corpo femminile. Dobbiamo però sottolineare che questo popolo aveva una mentalità molto “aperta” (diremmo nel nostro contemporaneo). Il sesso veniva vissuto con libertà ed era dichiaratamente “merce di scambio” a livello politico, religioso e di sopravvivenza. Inoltre, era parte del sostentamento del ka. Durante il Periodo Arcaico, quando un uomo importante moriva, affinché non gli mancasse nulla nella vita nell’aldilà, veniva seguito dai servitori e dalle sue concubine, generando decimazioni umane. Fu l’arte a porre rimedio a questa problematica pratica. Per continuare a servire il padrone, durante la II Dinastia, nacquero le “concubine del defunto”: figurine femminili di terracotta, scambiate erroneamente per bambole, con grandi parrucche, tatuaggi nelle zone sessuali e spesso accompagnate da liuti e tamburi.
Le concubine facevano parte di una vera e propria istituzione in Egitto: l’harem. Queste donne venivano chiamate “bellezze vive” o “gioielli del palazzo” , proprio perché venivano relegate in uno spazio specifico dell’abitazione dove restavano, fino alla loro morte, per assolvere il loro compito di “merce di scambio”.
Le ritualità del “doversi donare”
Oltre a queste piccole sculture, poste nelle tombe per accompagnare il defunto nel suo viaggio nell’aldilà, troviamo anche esempi di arte parietale. Gli affreschi non avevano solo lo scopo di ricostruire i luoghi vissuti in vita, ma rispondevano a un’esigenza più profonda: celebrare il defunto ricordando i momenti più belli della sua esistenza e, al contempo, invocare la protezione degli dei. Tra le immagini di vita quotidiana, raffiguranti momenti solenni e di festa, spicca lo splendore della danza e della musica, elementi fondamentali della vita nell’antico Egitto, così centrali da essere professionalmente riconosciute.
Tuttavia, l’arte della danza non equivaleva solo all’esibizione in sé, ma era strettamente legata all’amore e ai cerimoniali sacri: molte danzatrici erano, infatti, anche prostitute e, in alcuni casi, sacerdotesse.
Le prassi sacerdotali erano intrise dell’idea del “doversi dare” alla divinità, come si può scorgere dalle tracce in culti che derivano da quello della Grande Madre.
Il credo egizio suddivide il “potere” della Grande Prostituta in più entità, sicuramente l’erede più diretta è Iside. Del culto della dea però abbiamo ipotesi, ma nulla di certo è stato ritrovato; mentre troviamo fonti scritte, di nostro interesse, per quel che riguarda la famosa festività che gli egizi celebravano nella città della dea gatto Bastet.
La dea in questione era rappresentata come una gatta dal fascino seducente e dalla natura ambivalente: pacifica e feroce allo stesso tempo, veniva venerata soprattutto come divinità della fertilità, protettrice della sessualità e dell’intimità femminile. Secondo lo storico Erodoto, durante la festa annuale in onore di Bastet, le donne si recavano al suo tempio navigando lungo il Nilo. Durante il tragitto, si fermavano in ogni città incontrata, dando vita a vere e proprie processioni rituali. In queste occasioni, le donne suonavano strumenti musicali, danzavano in modo sensuale e urlavano parole di libertà e incoraggiamento, con l’obiettivo di coinvolgere anche le donne delle altre città. Uno degli aspetti più singolari di questi riti era un gesto simbolico: le donne sollevavano le tuniche fino a scoprire le cosce. Questo gesto, chiamato anasyrma, era considerato sacro e permetteva di diffondere il potere femminile, richiamando l’antica eredità delle donne devote a Ishtar. Era ritenuto un atto propiziatorio, portatore di fertilità, fortuna e protezione per le donne e la loro sfera intima. Erodoto descrive il tempio di Bastet come un luogo magnifico e accogliente, dove chiunque poteva accedere per partecipare ai riti legati all’amore, eccetto i bambini, per motivi comprensibili. Oggi, della città di Bubastis, luogo del culto, situata a sud-est dell’odierna Zagazig, restano soltanto rovine in pietra rossa.
Un’altra divinità collegata alla sfera erotica e alla prostituzione era il dio Bes, protettore della danza, della musica e delle celebrazioni gioiose. Spesso veniva raffigurato mentre suonava il tamburello e aveva anche un ruolo legato all’igiene personale: la sua immagine compariva su oggetti utilizzati per la cura del corpo. Inoltre, Bes era noto come il “Guardiano della Porta” nei rituali di iniziazione, poiché il suo nome significava “iniziare” o “introdurre”. Il suo volto veniva talvolta tatuato sulla coscia di danzatrici e prostitute, e molte musiciste lo esibivano con orgoglio durante le loro esibizioni. Come evidenziato dall’egittologa Joyce Tyldesley: “le prostitute sfruttavano le loro abilità musicali per attirare i clienti e un legame fra musica, femminilità, sesso e parto ci viene suggerito dalla presenza di tatuaggi del dio Bes sulle cosce di queste donne”. Difatti il dio è anche l’accompagnatore della dea Hathor, attenta di Afrodite/Venere.
L’obbligo femminile di “doversi donare”, resta dunque un atto necessario e impresso nei lasciti artistici e nelle tracce di questi popoli.