Cosa significa “fare rumore”?
Perché sta diventando sempre più un’espressione comune e “necessaria”?
In molte culture e religioni l’origine stessa del mondo e dell’uomo deriverebbe da un “suono”, che si parli di un soffio, di un richiamo, di una parola o di un tuono…insomma, l’origine di tutto trarrebbe genesi dalla rottura del silenzio. Se ben ci pensiamo, anche a livello scientifico, tutto sarebbe cominciato da un “grande boom”, innescato da non si sa cosa e perché. Dunque, potremmo dire che il suono sia da sempre legato al principio stesso dell’umanità, ma come si passa dal “suono d’inizio” al concetto, così diverso, di rumore?
Nel significato più classico il rumore viene concepito come un disturbo, per citare il Dizionario Treccani:
<<Fenomeno acustico, che non ha caratteristiche musicali ( il r. della pioggia, il r. dei passi, degli applausi ), spesso associato a sensazioni sgradevoli ( il r. del traffico ) o alla percezione indistinta di voci che risultano come un suono confuso ( non fate r. ; dalla piazza saliva il r. della folla ).
Nel linguaggio letterario, con significati variamente riconducibili all’idea di protesta, tumulto, ribellione, eccitazione ( mettere a r. un luogo ; menar r. di qualcosa, menarne gran vanto), oppure di notizia confusa, o, meno com., di fama.>>
Il rumore è dunque interruzione di armonia o di silenzio, con derivazioni e conseguenze differenti… dalla semplice sgradevolezza a un reale cambiamento. Se il frastuono che si generò all’incirca 4,560 miliardi di anni fa per partorire il nostro pianeta dev’essere stato rumoroso, la nascita dell’umanità deve aver contribuito a non spegnere mai quel fastidio sonoro avvolte costante, a volte meno.
Fare rumore per gli esseri umani significa essere vivi, smettiamo di produrre suoni solo quando smettiamo di esistere o ci spegniamo momentaneamente. Il rumore, essendo così intimamente legato al genere umano, viene da sempre declinato, nelle diverse culture, in specifiche tradizioni e riti differenti in base al luogo. Il frastuono viene celebrato o ripudiato o osannato in base all’epoca.
Nel nostro contemporaneo si comincia a parlare della “necessità di fare rumore” all’incirca un’anno fa, a causa dell’ennesimo femminicidio compiuto nel 2023. La vita a cui è stata tolta la possibilità d’essere vissuta, ha generato più scalpore di altre, forse, proprio perché fino a quel momento era una vita comune e semplice che produceva suoni più o meno armoniosi come tutte e tutti noi. Nessuno avrebbe mai pensato che una vita così sarebbe stata brutalmente strappata. Nessuno avrebbe mai pensato che la morte, invece d’essere silenziosa come sempre, sarebbe stata tanto rumorosa.
Non più minuti di silenzio per donne che non hanno potuto scegliere di continuare a vivere, ma rumori tintinnanti, urla, confusione ed espressione pura di una piccola rivoluzione che vuole radicarsi e dare dei frutti. Una rivoluzione che vuole continuare ad echeggiare all’interno di sibili pronti ad insinuarsi nell’aria e a continuare come un riverbero, senza mai realmente fermarsi.
Questa è la “necessità” di fare rumore, una necessità che non deve spegnersi e che in verità è più antica di quel che pensiamo. Antecedente anche alle prime lotte femministe, dove i rumori occorrevano ancor di più per conquistare spazi e legittimazione. I rumori per le donne, o meglio per le lotte delle donne, sono necessari da tempo immemore e soprattutto lo sono all’interno di piccole azioni quotidiane.
Essendo abruzzese d’origine, quando penso al “rumore necessario” le prime immagini che si delineano nella mia testa sono quelle di riti propiziatori o scaccia malocchio. La tradizione della mia regione è profondamente legata a tutta una serie di gestualità e oggetti, che hanno l’apposito uso di liberare le persone da “lu’mmualucchie” altrui: suoni, formule, metalli preziosi o meno da indossare o da utilizzare durante momenti specifici. Il folklore abruzzese personifica l’invidia e gli sguardi più o meno maliziosi in un flusso di energia negativa inviata a qualcuno con lo scopo di danneggiarlo, può essere di due tipi volontario o involontario. Altra particolarità, è che per “colpire” con il malocchio qualcuno, si deve utilizzare (ancor prima di passare ai riti): lo sguardo.
Lo sguardo umano è portatore di sentimenti, pensieri intimi, istinti che, seguendo la tradizione, si possono materializzare in pochi secondi in un flusso maligno che confluisce sulla persona.
In Abruzzo, il malocchio può essere fatto da chiunque a chiunque, ma diciamo che, seguendo lo stereotipo, principalmente l’idea è che colpisca bambini o bambine o donne di bell’aspetto. La bellezza sui generis, nello specifico femminile, è la preferita di questo flusso negativo composto da gelosia e pensieri di malizia. Se sono le donne le prime ad essere colpite dall’ombra crudele de “lu’mmualucchie”, sono anche coloro che hanno creato “metodi” per riuscire a restare intaccate da questa oscurità che le spia silenziosamente. Lo stesso rito della tolta, viene spesso tramandato dalle donne di famiglia, ed è composto da rumori mirati a scacciare questo male che si annida nel silenzio; basti pensare che per svolgere il rito tradizionale (quanto meno nell’area dell’Alto Vastese) occorrono: un piatto con dell’acqua, dell’olio, un coltello, un paio di forbici e delle tintinnanti chiavi. Ma togliere il malocchio non basta a fermare i silenziosi sguardi cattivi, sono necessarie altre armi tra cui: il classico cornetto da tenere sempre addosso in un punto nascosto, il numero 13, del corallo rosso o il quadrifoglio.
Le donne native della ragione sanno da sempre che la loro difesa deve essere più mirata ed estrema rispetto a quella maschile. Per riuscire a combattere l’oscurità del silenzio, nascono, seguendo antiche tradizioni pagane e agro-pastorizie, amuleti per allontanare le influenze nefaste e attrarre quelle benefiche. Ci sono molteplici simboli e manufatti orafi femminili che assolvono questa funzione, ma i più “rumorosi” e efficaci sono sicuramente una coppia di orecchini: le Sciacquajje.
Dall’ottocento in poi tutte le donne abruzzesi, indipendentemente dal ceto, indossavano nel quotidiano questi particolari orecchini a mezzaluna arricchiti da pendenti e catenelle.
Gioielli di una bellezza sconvolgente per noi contemporanei, sfortunatamente non più in uso, molto presenti nelle opere degli artisti abruzzesi del Novecento che ci portano testimonianza di quanto fossero comuni all’epoca. Lo stesso nome dell’amuleto apotropaico si rifà al parlato di tutti i giorni, deriverebbe dal dialetto di Orsogna “scioccaglie” proprio per richiamare l’azione quotidiana femminile di “sciacquare” i panni alla fonte, quando questi gioielli venivano mostrati pubblicamente.
Un’azione abituale, faticosa, chiassosa e pericolosa.
Il pericolo per queste donne non era soltanto quello del malocchio, ma anche il rischio di incombere in malviventi, stupri e ladri durante il tragitto per andare a lavare la biancheria o quello del ritorno; difatti le abruzzesi erano solite muoversi in gruppo e non uscire mai senza aver prima impreziosito le loro orecchie con le fragorose Sciacquajje. I suoni delle catenelle pendenti e dei ciondoli, che ad ogni movimento si infrangevano tra di loro o sulla piastrina lunare, diventavano così non solo un fracasso scaramantico, ma un rumore necessario.
Oggi come ieri, le donne, non solo abruzzesi, si ritrovano a dover percorrere un tragitto breve o meno breve affidandosi comunque a un oggetto “apotropaico”: le chiavi.
Chiavi di casa pronte all’utilizzo, pronte a tentennare mostrando la vicinanza al punto d’arrivo, pronte a far rumore in una strada troppo silenziosa per essere percorsa senza timore di occhi malintenzionati.
Se le Sciacquajje rappresentavano la difesa del “fuori casa” per le donne abruzzesi del passato, le chiavi per le donne contemporanee possono essere l’aiuto per il “fuori” ma spesso non per il “dentro casa”.
Le chiavi sono simbolo del rifugio domestico, peccato però che non sempre, ieri come oggi, essere a casa significa essere al sicuro.
Dunque il rumore dev’essere ancora più forte, e più di tutto, deve risuonare in ogni azione ordinaria con o senza orecchini o chiavi, bensì con atti concreti.