Durante uno dei tanti confronti sul femminismo, è emersa prepotentemente la parola nazifemminismo; non perché il mio interlocutore prediletto, ovvero il mio compagno, la stesse utilizzando per identificare me (ci mancherebbe, non sarebbe il mio compagno altrimenti), ma perché ha voluto porre l’attenzione proprio sull’utilizzo del termine, che ha effettivamente visto, letto, sentito in ampi e svariati modi. Decisamente troppi.

Negli ultimi anni, soprattutto nei dibattiti online, è diventato sempre più frequente l’utilizzo di questo termine, sfruttato sia in modo provocatorio che di disprezzo. Tale neologismo nasce dall’unione di due parole profondamente distanti nella storia e nei significati, ma che nell’uso polemico mirano a produrre un effetto preciso: squalificare, ridicolizzare e demonizzare le istanze femministe assimilandole a un totalitarismo ideologico.

Da YouTube a Twitter (oggi X), dai commenti sui quotidiani ai talk show, l’accusa di “nazifemminismo” si insinua con toni sempre più accesi. Il termine “nazifemminista” deriva, con ogni probabilità, da un’espressione nata nel mondo anglofono: “feminazi”, resa popolare negli anni ’90 dal conduttore radiofonico conservatore Rush Limbaugh. In quell’occasione, Limbaugh la utilizzò per definire con tono spregiativo le attiviste femministe che, a suo dire, avrebbero portato avanti un’agenda radicale e intollerante, comparabile per fanatismo a quella dei regimi totalitari. 

Nel contesto italiano, nazifemminista è usato prevalentemente in ambienti maschilisti, reazionari o, passatemi il termine, trolleschi, in risposta a prese di posizione femministe su temi come l’aborto, la parità di genere, la violenza di genere, la rappresentanza politica, il ruolo nella società e tanto altro. L’uso è spesso, come accennato sopra, strumentale: etichettare l’interlocutrice per evitare un confronto argomentato. Non è raro trovarlo tra i commenti dei social o nei meme che ridicolizzano le istanze femministe, ma non mancano nemmeno casi in cui è stato pronunciato da opinionisti o personaggi pubblici in contesti più “ufficiali”.

La costruzione del termine

Nazifemminista è un portmanteau che accosta due realtà apparentemente inconciliabili: il nazismo, ideologia genocida e autoritaria, e il femminismo, movimento storico per l’uguaglianza di genere. È un accostamento retoricamente violento, che sfrutta l’iperbole per scioccare e stigmatizzare. La sua funzione non è descrivere, ma colpire: evocare paura, suscitare disprezzo, delegittimare l’interlocutrice.

La costruzione linguistica è pensata per colpire emotivamente: chi ascolta “nazi-” attiva immediatamente uno schema mentale di fanatismo, oppressione, pericolo. Associarlo al femminismo non ha alcun fondamento storico o logico, ciò che si ottiene non è una critica, ma una distorsione: un dispositivo retorico che trasforma la richiesta di diritti in una minaccia, la rivendicazione in imposizione, la voce in aggressione.

È una strategia che si colloca nel repertorio più ampio della reazione culturale: laddove un movimento propone trasformazione sociale, viene dipinto come ideologico, radicale, persino pericoloso. In questo caso, l’iperbole non solo mistifica il senso del femminismo, ma lo criminalizza: lo inserisce in una cornice di pericolo, estremismo e intolleranza.

Un secondo aspetto da tenere in considerazione è la banalizzazione del male dell’ideologia nazista che ne deriva. Questa modalità di utilizzo del prefisso porta a ridurre un regime responsabile di milioni di morti a una formula retorica per indicare qualcosa che non piace, con cui non si è d’accordo. Una evidente forma di revisionismo culturale che spegne la memoria storica, svuota di senso le parole e banalizza il trauma collettivo.

Diversi storici e filosofi, da Hannah Arendt a Enzo Traverso, hanno messo in guardia contro il rischio di usare il nazismo come metafora generica di autoritarismo. Farlo senza cognizione di causa significa perdere il contatto con la specificità di quel fenomeno storico. Usare nazifemminista per delegittimare un’interlocutrice significa, indirettamente, affermare che chiedere parità o denunciare ingiustizie è un atto di fanatismo. È un rovesciamento logico che impedisce qualsiasi confronto civile, riducendo il dissenso a caricatura, un doppio danno al pensiero critico. Chi ne fa uso non solo abbandona il terreno del confronto civile, ma nega implicitamente il diritto stesso al dissenso.

E il patriarcato?

“Cavalcare l’onda” è un binomio utilizzato tantissimo, una di quelle frasi fatte che si sconsiglia di adoperare proprio perché renderebbero il discorso poco ricercato, quasi scontato.

Ma in questo caso, calza talmente alla perfezione che non posso esimermi dall’utilizzarla. Dico questo, perché il patriarcato altro non fa che cavalcare l’onda della pancia dei più sfruttando il termine nazifemministe proprio per amplificare l’astio nei confronti di donne e uomini, perché è bene non dimenticare che femministi sono anche loro, che altro non fanno che rivendicare diritti che dovrebbero ormai essere base del vivere quotidiano della nostra contemporanea società. 

L’esistenza stessa e il perdurare dei sentimenti patriarcali, perché trovo complesso definirli vere e proprio ideologie, che in teoria alla base dovrebbero avere una riflessione profonda e sensata, è diventata una assurdità a tal punto che è lo stesso patriarcato a dover mettere in campo degli stratagemmi per rianimare i propri seguaci. 

Tra questi stratagemmi c’è proprio l’utilizzo strumentale e, a quanto pare, molto funzionante, di termini come nazifemministe. Evidentemente, l’unico modo per poter rispondere alle istanze e alle lotto corrette, lecite, dovute del movimento femminista è quello di toccarne la radice linguistica, screditandola. 

Senza cadere nella banalità, l’utilizzo del termine e l’assenso che lo segue fa comprendere quanto ancora la lotta del movimento femminista sia ancora percepita come un attacco e quanto ancora si vogliano relegare le donne in un piccolo angolo di subalternità, sottomissione e servilismo.

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