Teoria dello sviluppo psicosociale di Erikson

Secondo lo psicologo Erik Erikson lo sviluppo di ciascun individuo si articola in diverse tappe e, in ognuna di queste, la persona deve attraversare un conflitto interiore dovuto alla presenza di due forze in opposizione: la prima indica una conquista, la seconda un fallimento. Le tappe individuate da Erikson sono otto:

  • 0-1 anno: in questo periodo il bambino sviluppa un senso di fiducia nei confronti della persona che si prende cura di lui; sentimento che, negli anni successivi, verrà traslato al rapporto che ha con il prossimo. Se però l’ambiente in cui trascorre il proprio tempo non è sicuro, sviluppa un senso di sfiducia nei confronti delle persone che lo circondano.
  • Dai 2 ai 3 anni: il bambino inizia ad acquisire alcune capacità come il linguaggio, la locomozione, il pensiero che gli conferiscono una certa autonomia ma, allo stesso tempo, anche un senso di vergogna e di dubbio sulle proprie capacità.
  • Dai 4 ai 5 anni: il conflitto è tra l’iniziativa e il senso di colpa; infatti questa è l’età in cui il bambino gioca, sperimenta, costruisce e scopre cose nuove; se la curiosità non viene accolta ma repressa o punita porta allo sviluppo di sensi di colpa.
  • Dai 6 ai 12 anni: è l’età in cui il bambino inizia la scuola e con essa il confronto con i suoi simili; talvolta è in questo periodo che arrivano le prime critiche e giudizi da parte delle figure di riferimento; in questo periodo il bambino può sviluppare un senso di competenza o di inferiorità.
  • Dai 13 ai 18 anni: è l’età dell’adolescenza, quella in cui da una parte si devono elaborare le proprie trasformazioni fisiche e cognitive e dall’altra ci si ribella alle autorità, familiari e non, in cerca della propria identità. Qui lo scontro è tra la costruzione della propria identità e la comunicazione di essa agli altri.
  • Dai 19 ai 25 anni l’identità è ormai definita e la persona ricerca relazioni in cui potersi riconoscere e validare. Il conflitto è tra la propria intimità e la relazione con l’altro.
  • Dai 26 ai 50 anni si entra nell’età adulta nella quale la persona desidera costruire qualcosa che rimanga, che sia sul piano familiare, lavorativo o sociale. Il conflitto diventa quello tra il senso di realizzazione e quello di stagnazione/insoddisfazione nel caso in cui la persona ritenga di non aver raggiunto gli obiettivi che si era prefissata.
  • Dai 50 anni in poi ci si interroga sul passato e il conflitto diventa quello tra l’integrità dell’io, che permette di accettare il proprio passato, e il senso di nostalgia che scaturisce se non si giunge all’accettazione della propria vita, a causa di rimpianti e rimorsi.

Identità personale: combinazione di esperienze di vita, interazione sociale e pruning sinaptico

Tra tutte queste tappe, il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza, è quello in cui ciascuno ricerca se stesso e, attraverso l’interazione con gli altri e con il mondo esterno, costruisce la propria identità. Con questo termine possiamo intendere la somma di due entità diverse, una soggettiva e una oggettiva. L’identità soggettiva è l’insieme delle caratteristiche che vediamo in noi stessi, come ci percepiamo e descriviamo agli altri; l’identità oggettiva è invece quella che ci viene riconosciuta dagli altri. E’ quindi la nostra riconoscibilità e si presenta con caratteristiche sia fisiche che sociali che psicologiche. L’identità è strettamente correlata alla personalità ed entrambe sono entità dinamiche, influenzate e modellate dall’ambiente in cui viviamo e da tutti gli stimoli che riceviamo.

In base alle opportunità che ci vengono offerte durante la nostra infanzia e adolescenza, siamo in grado di diventare qualcuno o qualcun altro di completamente diverso. Il comportamento, le abitudini di vita, il carattere di ciascuno vengono modificati sulla base delle esperienze fatte in questi anni e di tutti gli stimoli psicologici, sociali, culturali e ambientali cui si è sottoposti.

Questo è dimostrato anche scientificamente dal concetto di pruning sinaptico. Con questo termine si intende il processo neurologico che si verifica nei primi anni dell’infanzia e durante l’adolescenza, quando il nostro cervello seleziona le connessioni sinaptiche da mantenere e quelle da eliminare. Sappiamo infatti che le sinapsi rappresentano i collegamenti che si formano tra le cellule nervose e sui quali si basano le nostre capacità cognitive, linguistiche, mnemoniche. Sebbene il processo di plasticità sinaptica permetta di formare e modificare le connessioni sinaptiche per tutta la vita, è durante l’infanzia che si costruisce la maggior parte dei collegamenti che vengono poi eliminati o affinati negli anni successivi. La selezione delle sinapsi da tenere e da eliminare viene fatta sulla base di quanto queste siano state sollecitate durante i primi anni di vita. È per questo motivo che il bambino deve essere stimolato e sottoposto a diverse esperienze di apprendimento e di interazione sociale perché è sulla base di queste che avviene la potatura sinaptica dalla quale dipende la specializzazione del cervello in alcune funzioni piuttosto che in altre. Dunque, le esperienze di vita che facciamo durante l’infanzia e l’adolescenza influenzeranno la nostra identità e personalità.

Ricerca e privazione di modelli femminili

E’ in questo contesto che avviene anche la ricerca di modelli in cui riconoscersi e a cui poter aspirare. Il sociologo Neil Smelser, in Manuale di sociologia, afferma come ciascuno crei i propri modelli sulla base di quelle che sono le necessità e gli obiettivi che si è posto; i modelli sono figure fondamentali nello sviluppo e nella definizione dell’identità personale di ciascuno in quanto forniscono gli elementi necessari a costruire la cornice entro la quale porsi e definirsi. Che il modello sia una persona reale o di fantasia, l’imitare o l’identificarsi nello stesso, aiuta ad introiettare e integrare alcune caratteristiche nella propria personalità ma anche il discostarsi e opporsi ad un modello che riteniamo negativo ci permette di capire ciò che non vogliamo essere. Attraverso i modelli che ci vengono proposti, riusciamo a definire chi siamo ma anche chi vogliamo diventare.

Cosa succede quando la società ci priva di modelli in cui poterci riconoscere?

Uno studio di inizio 2016, condotto da Andrew Kahn e Rebecca Onio, ci dice che su 614 libri di storia scritti e pubblicati da 80 case editrici diverse, il 75,8% è scritto da autori maschi. E meno del 10% di questi scrive di donne. Un altro studio, condotto da Rachel Lee Perez, mette in luce come in un testo di 819 pagine, i riferimenti alle donne ammontano a meno di una pagina. E solo il 3% dei materiali didattici si concentra sul contributo delle donne nella società. Sembrerebbe quindi che i libri di scuola siano scritti da uomini per uomini.

Scrittrici, poete, storiche, pittrici, artiste, scienziate completamente cancellate dalla storia. Negli anni della mia formazione scolastica sono stata privata, come tantissimi altri, dell’opportunità di conoscere le storie di decine di donne, la cui vita e le cui opere avrebbero potuto guidarmi. Ed è per questo che, quando alla fine delle superiori, ho iniziato da sola a scegliere i libri da leggere, sono rimasta stupita nello scoprire che anche le donne fossero in grado di pensare e di scrivere. 

Se avessi letto a 12 anni le poesie di Chandra Livia Candiani, mi sarei sentita meno sola quando ero spaventata dalla mia sensibilità. Se a 18 anni avessi letto Mariangela Gualtieri, avrei saputo che ogni dolore ha il diritto di essere vissuto, anche il mio, e che guarire significa prendere i cocci, derivati da quel dolore, e metterli insieme, con rispetto, delicatezza e amore. Se all’ultimo anno di liceo avessi letto L’Agnese va a morire di Renata Viganò avrei saputo che la vendetta è un sentimento che anche le donne possono provare e hanno provato. Il sentimento di vendetta che spinge Agnese ad unirsi alla Resistenza, dopo che i tedeschi gli hanno ucciso il marito e il gatto, è lo stesso sentimento che Artemisia Gentileschi dipinge in Giuditta che decapita Oloferne. Mentre nella rappresentazione di Caravaggio, la protagonista femminile è rappresentata come se fosse spaventata e non convinta della sua azione, al contrario la Giuditta di Artemisia Gentileschi è fiera, ferma e convinta di quello che sta facendo, ed è aiutata da un’altra donna, l’ancella Abra, complice e testimone, fino alla fine. Gentileschi, nelle sue opere così come nella sua vita non si arrende mai ad essere vittima ma si oppone alle ingiustizie, ai pregiudizi e agli stereotipi del suo tempo diventando un esempio di coraggio e di determinazione. Un esempio che avrei potuto conoscere prima, se solo Gentileschi fosse stata presente nei libri di storia dell’arte. Ma la sua assenza è la stessa che è toccata anche a Marie-Clémentine Valadon, ricordata per essere Suzanne, la musa ispiratrice di Henri de Toulouse-Lautrec, e madre del pittore Maurice Utrillo, e meno per essere stata la prima pittrice francese a venir ammessa alla Société Nationale des Beaux-arts. Valadon ci lascia un’eredità di dipinti fatta soprattutto di ritratti, in cui rappresenta la condizione femminile, la maternità, la vita quotidiana delle donne in maniera audace e coraggiosa. Ma Valadon è anche la prima donna a realizzare nudi maschili, testimoniando che lo studio e la rappresentazione del corpo umano non devono essere soltanto appannaggio degli uomini. Rosalind Franklin, biochimica britannica, il cui lavoro è stato fondamentale per la scoperta delle strutture del DNA ed RNA, è stata dimenticata per decenni, e privata di un posto sui libri di scuola così come nei riconoscimenti  scientifici.

Quando Amalia Ercoli Finzi si iscrisse al Politecnico di Milano, le studentesse di ingegneria erano soltanto 5 su 650. Ercoli Finzi è stata la prima donna a laurearsi in ingegneria aeronautica ed è oggi considerata una delle personalità più importanti al mondo nel campo delle scienze e delle tecnologie aerospaziali. Quando Rita Levi Montalcini iniziò a studiare medicina, c’erano soltanto altre sette studentesse, oltre lei. Unica donna italiana ad aver vinto il Nobel per la medicina, Montalcini ha sottolineato più volte, nelle sue interviste, le difficoltà che le donne hanno nell’accedere alla formazione scientifica e alla vita accademica, per via del loro impegno, talvolta inconciliabile, con il lavoro di cura. Oggi le bambine e le ragazze, pur essendo ancora molto influenzate dalla rappresentazione incompleta che i libri, i mezzi di comunicazione e la società hanno da sempre realizzato delle donne, sono più libere di pensarsi e di dirsi come vogliono. Ma non sono ancora completamente liberate dagli stereotipi di genere; affinchè questo avvenga c’è bisogno di offrire loro una rappresentazione, quanto più ampia possibile, di modelli a cui aspirare e in cui potersi riconoscere in modo che ognuna sia libera di scegliere chi essere.

La libertà delle donne inizia dai libri di scuola perché una didattica che dimentica o peggio sceglie consapevolmente di voler eliminare le donne dalla narrazione, diventa complice del sistema che quelle stesse donne le priva, prima del loro ruolo/valore lavorativo, economico, sociale, culturale e poi anche della vita.

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