Camminerei da sola per strada senza avere paura.
Questa è la risposta che la maggior parte delle followers della pagina IG del movimento Girls against oppression ha dato quando è stato chiesto loro cosa avrebbero fatto se gli uomini fossero spariti dal mondo per un giorno.
Camminare per strada senza avere paura. È una risposta che non mi stupisce perché probabilmente è la stessa che darei io ma fa riflettere su quanto un’azione che potrebbe sembrare scontata per la maggior parte delle persone, sia invece un desiderio agognato per almeno metà di esse. Essere libere di spostarsi senza avere paura di veder violata la propria persona, in qualsiasi forma possibile, non è soltanto un diritto che attiene alla nostra libertà personale ma è anche la rivendicazione di uno spazio, di cui siamo state private, in cui poter esistere ed esprimere la nostra identità.
Secondo Camilla Perrone, professoressa di Tecnica e pianificazione urbanistica all’Università di Firenze, “le strade, che sono l’elemento generatore della vitalità dell’esperienza urbana, sono luoghi elettivi della democrazia. Lo sono nella misura in cui diventano luoghi di accoglienza ed espressione della diversità, ospitano e intrecciano un numero indefinito di usi, garantiscono libertà di accesso, movimento, fruizione, incoraggiando l’espressione di sé”. Togliendo la possibilità di sentirci al sicuro per strada e negli spazi pubblici che viviamo quotidianamente, la società ci ha privato non solo di parte della nostra individualità ed identità ma anche del nostro essere cittadine e parte di una collettività.
Una strada, un parco, un viale, un vicolo poco illuminato possono essere in grado di privarci della nostra libertà? Sì, nel momento in cui i mattoni ed il cemento, utilizzati per costruire gli spazi che viviamo, diventano gli strumenti attraverso i quali riprodurre plasticamente le dinamiche sociali, politiche ed economiche di cui facciamo esperienza. L’architettura si fa rappresentazione tridimensionale degli stereotipi sessisti e la cultura patriarcale che, più o meno consapevolmente, è introiettata dentro tutti noi, attraverso l’urbanistica, viene riprodotta anche al di fuori.
Jane Darke, geografa statunitense, afferma: “Ogni insediamento è un’iscrizione nello spazio delle relazioni sociali all’interno della società che lo ha costruito. Le nostre città sono l’iscrizione in pietra, mattoni, vetro e cemento del patriarcato”.
L’urbanistica moderna e la storia delle città che abitiamo è strettamente collegata alla rivoluzione industriale. Questa infatti ha portato ad una trasformazione delle strutture economiche e sociali fino ad allora esistenti determinando il passaggio da un’economia basata quasi esclusivamente sull’agricoltura ad una manifatturiera. Con la rivoluzione industriale e lo sviluppo della tecnologia, il tasso di mortalità diminuisce e la popolazione aumenta. Dalle campagne ci si sposta in centri urbani sempre più grandi e, in questo contesto, le città si accrescono trasformandosi da piccoli borghi contadini in grandi agglomerati operai. Nelle fabbriche si realizza una divisione del lavoro che diventa sempre più specializzato. In questo contesto di grandi trasformazioni economiche e sociali, lo spazio urbano svolge un importante compito: governare la popolazione rurale che si riversa nella città industriale e incasellare ogni individuo all’interno del proprio ruolo, dentro la fabbrica come al di fuori di essa.
Si verifica una rivoluzione anche nell’economia familiare: infatti, se nel periodo precedente all’industrializzazione, la famiglia costituiva una sola unità produttiva e retributiva, il lavoro in fabbrica porta ad una progressiva separazione della sfera lavorativa da quella familiare. Le donne vengono assunte e percepiscono un loro salario. Il settore produttivo più significativo è quello tessile nel quale la manodopera femminile è maggioritaria, sia perché più vantaggiosa dal punto di vista economico, dati gli stipendi più bassi rispetto agli uomini, sia perché facilmente sottomettibile alle regole imposte dal padrone della fabbrica.
Se da una parte le donne iniziano a lavorare fuori casa, dall’altra la maggior parte del loro tempo trascorre all’interno delle mura domestiche, svolgendo un lavoro di cura non retribuito e che grava esclusivamente sulle loro spalle. Al di fuori della casa e della fabbrica, non c’è altro spazio per le donne. Le città diventano luoghi frequentati quasi esclusivamente da uomini, gestiti e amministrati da essi e per essi immaginati e disegnati. Con l’utilizzo delle automobili, a partire dalla fine dell’Ottocento, il divario di mobilità tra uomo e donna e l’esclusione di quest’ultima dagli spazi e dalla vita pubblica diventano sempre più accentuati. L’urbanistica, teoricamente materia neutra, finisce per immaginare e realizzare una città sempre più a misura di uomo. Come affermato da Leslie Kern nel saggio La città femminista, “la città è stata istituita per sostenere e facilitare i ruoli di genere tradizionali e le esperienze degli uomini sono la norma”.
La progettazione dello spazio urbano sembra basarsi su un unico modello di cittadino: l’uomo adulto, lavoratore e possessore di un’automobile. Questo si traduce, per esempio, nel fatto che, nelle nostre città, le strade sono state pensate per essere soltanto strutture di transito e non spazi di utilizzo. Oppure, i marciapiedi e le pedonalizzazioni non sono sempre realizzati e, anche quando presenti, non accessibili a tutti.
Inoltre, sebbene soprattutto nelle città più grandi, si stia incentivando sempre di più l’utilizzo del trasporto pubblico locale, questo presenta dei limiti di fruibilità, in particolar modo per le donne. Infatti, uomini e donne si spostano in maniera diversa: se, nella maggior parte dei casi, i movimenti maschili sono lineari (casa-lavoro, lavoro-casa), quelli femminili seguono la modalità trip chaining o movimento a tappe. Oltre a raggiungere il luogo di lavoro, le donne devono occuparsi della cura dei figli e della casa, effettuando tappe intermedie verso scuole, supermercati, farmacie e servizi per la persona. Mentre gli uomini viaggiano spesso soli, utilizzando soprattutto mezzi di trasporto individuali (auto, bici, scooter) che permettono loro di gestire tempi e organizzazione del viaggio, le donne si avvalgono prevalentemente di mezzi di trasporto pubblici e non viaggiano sole ma con bambini o anziani al seguito. Questo determina spostamenti più lenti, meno flessibili e soggetti a continui imprevisti.
Per non parlare delle infrastrutture pubbliche per l’assistenza alla persona che non sono presenti o sono insufficienti, soprattutto nelle periferie dove vive la maggior parte delle famiglie. Dagli asili nido, ai centri di aggregazione, agli spazi comuni dove trascorrere il tempo libero, l’assenza di questi servizi sposta tutto il peso e la responsabilità della cura dei bambini, degli anziani ed in generale delle persone più fragili, sulle madri o comunque sulle donne, figure che svolgono in prevalenza la funzione di caregiver.
Questi sono alcuni esempi che però fanno capire come le città siano state pensate e costruite senza tener conto di alcune necessità delle donne, creando barriere fisiche che finiscono per tradursi in diseguaglianze sociali ed anche economiche.
La progettazione della città, secondo un immaginario maschile, influenza il modo in cui le donne vivono gli spazi e il tempo che hanno a disposizione. Ed è scontato sottolineare come spazio e tempo non siano solo grandezze fisiche ma affermazioni di potere. Avere uno spazio dove esistere, esprimersi, sentirsi al sicuro e poter gestire il proprio tempo, nella maniera più agevole possibile, significa poter affermare la propria persona come individualità ma anche all’interno di una comunità. Significa rappresentarsi ed essere rappresentati. E la rappresentatività è potere sociale, economico e soprattutto politico.