Nel 1882 alcuni ricercatori della Johns Hopkins University di Baltimora fecero un esperimento in cui notarono che, ponendo una rana in una pentola riempita con acqua bollente, questa saltava fuori immediatamente per trarsi in salvo. Al contrario, se si metteva la rana in una pentola di acqua fredda e poi si riscaldava l’acqua lentamente e un po’ alla volta, la rana sembrava adattarsi continuamente alla nuova temperatura, senza reagire fino a quando moriva bollita. La gradualità dell’evento permetteva l’adattamento della rana alla nuova situazione e la privava della capacità di reagire.
L’esperimento della rana bollita è stato ripreso dal filosofo e attivista statunitense Noam Chomsky che lo ha utilizzato in ambito socio-antropologico per descrivere il rapporto che c’è tra masse, media e potere. In particolare, Chomsky individua un’analogia tra il modo in cui la rana si adatta, senza reagire, al cambiamento di temperatura dell’acqua e la capacità che il genere umano ha di adattarsi ai cambiamenti socio-politici negativi, senza opporre resistenza, anche quando questi finiscono per sottrarre diritti fino a poco tempo prima acquisiti o per svuotare di significato principi fondativi della nostra civiltà.
Se da una parte la capacità di adattamento all’ambiente circostante ha da sempre rappresentato un vantaggio selettivo per la specie umana, permettendone la sopravvivenza, dall’altra quando questa diventa rassegnazione e immobilismo, finisce per essere un pericolo per la nostra umanità e per i valori democratici.
Negli ultimi anni si sono susseguiti una serie di avvenimenti che, se presi singolarmente, avrebbero dovuto scuoterci. Invece siamo rimasti quasi anestetizzati di fronte ad ingiustizie per cui avremmo dovuto provare rabbia e ribellarci. Immobili e soli, incapaci di reagire come la rana che si abitua alla nuova temperatura fino a quando si ritrova stecchita.
Ultimamente mi sono spesso posta una domanda: esiste un limite a ciò che siamo disposti a tollerare? Riusciamo a tollerare la deumanizzazione di persone migranti, incatenate e chiuse in gabbie mentre davanti a loro una rappresentante del Governo della “più grande democrazia occidentale” fa un video di propaganda; riusciamo anche a tollerare che il rumore delle manette di persone deportate venga associato ad una sensazione di rilassamento e di calma. Siamo riusciti ad accettare la morte di 94 persone, annegate davanti alla costa di Cutro. 94 persone, di cui 34 bambini, morti annegati dopo che le autorità italiane hanno ignorato le richieste di soccorso. Siamo quotidianamente testimoni del genocidio del popolo palestinese; 50.000 morti, dal 7 ottobre 2023, di cui quasi 18.000 bambini. A Gaza non ci sono più ospedali funzionanti. Giornalisti, attivisti, sanitari, volontari colpiti e uccisi perché testimoni scomodi di crimini di guerra. E in tutto questo l’Occidente è rimasto e rimane ogni giorno a guardare, impassibile, immobile, silenzioso. Riusciamo ancora a tollerare che in Italia, ogni tre giorni, una donna venga uccisa per mano di un uomo che crede di possederla. Da gennaio, 11 donne sono state ammazzate ma la politica, il potere mediatico e la nostra società continuano ad alimentare e legittimare, ogni giorno, una cultura patriarcale che è il vero comun denominatore di queste morti.
Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto? Essere a conoscenza di notizie terribili, testimoni di ingiustizie senza avere la forza di reagire; ormai riusciamo soltanto a scorrere compulsivamente verso il basso, sullo schermo, nella spasmodica ricerca di nuovi contenuti, informazioni, notizie.
Nella raccolta Media e Potere, Chomsky afferma come il principale responsabile dell’adattamento alle ingiustizie del nostro tempo sia proprio il potere mediatico che, assoggettato dai gruppi di potere economici e politici, addormenta le persone privandole della volontà e della capacità di lottare.“I mass media tentano essenzialmente di distrarre il pubblico. Vogliono che la gente faccia qualcos’altro in modo che non dia fastidio a coloro che organizzano e gestiscono il potere”.
Secondo Chomsky, la politica utilizza 10 regole per manipolare e controllare il pubblico attraverso i mass-media:
- Strategia della distrazione: come dice il nome stesso, serve a mantenere il pubblico sempre occupato con distrazioni continue, bombardandolo di informazioni insignificanti e fake news in modo da privarlo del tempo necessario per interessarsi a questioni economiche, politiche e sociali.
- Problema-reazione-soluzione: è una strategia atta a creare un problema (che in realtà non esiste) in modo da far scaturire nel pubblico una reazione e offrire una soluzione che molto spesso va nella direzione della limitazione delle libertà personali.
- Strategia della gradualità: per far accettare misure inaccettabili, basta applicarle con gradualità.
- Strategia del differire: consiste nel fornire al pubblico il tempo necessario per abituarsi all’idea di un cambiamento per poi essere in grado di accettarlo in un secondo momento. Solitamente viene utilizzata per imporre decisioni impopolari, presentate come necessarie.
- Rivolgersi alle persone come fossero dei bambini: il linguaggio e gli argomenti utilizzati dai mass media, così come dalla politica, cercano il più possibile di infantilizzare le persone, abbassando il livello delle discussioni.
- Usare l’aspetto emotivo più che la riflessione per rendere più semplice inculcare idee e paure nella testa delle persone.
- Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità
- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità
Queste due strategie servono a creare un gap culturale ed economico incolmabile tra classi sociali diverse e tra le masse e l’élite dominante. Quando si fa questo e, allo stesso tempo, si promuove una cultura del merito che legittima l’idea secondo la quale il successo personale dipenda esclusivamente dall’impegno del singolo e non anche dalle condizioni economiche e sociali di provenienza, si finisce per legittimare una serie di diseguaglianze economiche, culturali e sociali che dovrebbero invece essere eliminate dal potere politico e mediatico.
- Rafforzare il senso di colpa: strettamente connesso a quanto scritto in precedenza, questa strategia serve ad attribuire all’individuo la colpa esclusiva delle ingiustizie a cui è sottoposto, eliminando completamente la responsabilità del sistema politico-economico che lo circonda.
- Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano, in questo modo il sistema riesce ad esercitare un controllo sull’individuo maggiore rispetto a quello che lo stesso individuo ha su sé stesso.
A queste strategie, utilizzate dai media e dalla politica, si aggiunge un meccanismo psicologico che noi stessi ci imponiamo quando riteniamo di non aver potere sulle ingiustizie. Tale meccanismo, noto come ipotesi del mondo giusto, ci permette di giustificare e rendere più sopportabili l’ingiustizia e la sofferenza. Lo psicologo americano Melvin Lerner ha ipotizzato per primo questa teoria quando, durante un tirocinio presso una struttura sanitaria, potè osservare come gli infermieri della struttura erano in generale gentili ed empatici ma, in particolari condizioni, come con i malati mentali, diventavano sgarbati. Lerner approfondì l’argomento e, insieme alla collega Carolyn Simmons, effettuò un esperimento su 72 soggetti. I partecipanti allo studio dovevano guardare le immagini di una donna che veniva sottoposta a un test di memoria. Ogni volta che la donna sbagliava risposta veniva punita con una scossa elettrica. A un sottogruppo di soggetti venne poi chiesto se avrebbero voluto sostituire il meccanismo della punizione per le risposte sbagliate (scossa elettrica) con un premio per quelle giuste. Quasi tutti i soggetti accettarono e quando il sottogruppo venne intervistato, alla fine dell’esperimento, dichiarò di aver accettato perchè la donna era una vittima innocente che non meritava di essere punita. Al contrario, all’altro gruppo di soggetti non venne data la possibilità di sostituire la punizione con un premio. Quando questi vennero intervistati, alla fine dell’esperimento, giustificarono il trattamento subito dalla donna affermando che lo meritasse dal momento che aveva sbagliato alcune risposte o perché non si concentrava abbastanza o perchè non era brava.
L’esperimento, ideato da Lerner e Simmons, aveva come obiettivo quello di mettere in luce la nostra capacità di giustificare un’ingiustizia e renderla più accettabile quando non siamo messi nelle condizioni di impedirla o modificarla. In questo caso tendiamo ad attribuire la colpa dell’ingiustizia alla persona che la riceve, seguendo l’ipotesi del mondo giusto, secondo la quale il mondo è un luogo dove ognuno riceve ciò che merita: i buoni vengono ricompensati, i cattivi puniti; e dove ogni persona è l’unica e sola responsabile della propria condizione personale.
Ed è così che ci ritroviamo ad essere sempre più soli, automi in un sistema di cui facciamo parte ma in cui non ci riconosciamo. E quando siamo soli diventiamo ancora più deboli e impotenti davanti alle ingiustizie.