Sono cresciuta con la convinzione che la mia opinione è importante; sia a casa che a scuola, gli adulti di riferimento mi hanno spinta continuamente a pormi domande e richiesto la costruzione di ragionamenti attraverso i quali arrivare ad un’opinione mia. Un’idea che non era, in maniera assoluta, né giusta né sbagliata ma era la mia ed era importante. Le mie idee sono sempre state necessarie e hanno sempre avuto lo stesso valore di quelle degli altri. Se questa convinzione da una parte mi ha aiutata nella costruzione della mia identità personale e autostima, dall’altra mi ha anche caricata di una responsabilità: non essere mai indifferente a ciò che mi circonda. Di conseguenza, ogni volta che nel mondo, o anche soltanto nel nostro Paese, si verifica un’ingiustizia o semplicemente mi trovo di fronte ad un impegno civico da assumere, come l’andare a votare, io non riesco a rimanere indifferente. Per me è scontato sentire la responsabilità di dovermi informare, di dover avere un’opinione, un’idea da esprimere ed in questo modo contribuire alla costruzione di una realtà collettiva. Ho sempre pensato che fosse così un po’ per tutti fino a quando, in un caldo pomeriggio di inizio giugno, mi sono resa conto di essere vissuta con un grande privilegio: crescere e diventare grande nutrendomi dell’idea che il mio pensiero conti e sia importante, magari non per tutti ma sicuramente per qualcuno.

Lo scorso 8 e 9 giugno ero delusa dalla scarsa affluenza ai referendum sul lavoro e sulla cittadinanza e mi sono domandata per l’ennesima volta il motivo per il quale a molte persone, attualmente la maggioranza degli italiani, non importi esprimere la propria opinione; mi sono imbattuta in alcuni commenti che utenti di diverse piattaforme social avevano scritto in rete e sono arrivata alla conclusione, che sicuramente non può essere considerata come l’unica ma può essere annoverata tra le diverse ragioni, per cui numerosissime persone non votano in quanto credono che esprimersi sia inutile, convinte del fatto che le loro idee non abbiano alcun valore. E, a prescindere da quelle che sono o saranno le loro scelte, le decisioni di chi detiene il potere non cambieranno.

Per me questo è un concetto difficile da configurare in quanto, al contrario, io credo che non esista un posto migliore della cabina elettorale nel quale possa verificarsi realmente la condizione di uguaglianza tra cittadini di cui si parla nella Costituzione. In quel luogo, infatti, il segno della mia matita vale quanto il tuo, quanto quello di un ministro o del Presidente del Consiglio. Abbiamo tutti lo stesso potere di scegliere e di decidere, in un verso o nell’altro. L’atto è lo stesso e ha il medesimo valore ma ciò che è diversa è semmai la consapevolezza di quanto quell’atto possa essere potente e determinante. Una consapevolezza che cambia a seconda della persona che si trova a tracciare il segno sulla scheda elettorale.

Fino a qualche mese fa, quando pensavo al fenomeno dell’astensionismo, ho sempre creduto che fosse una risposta alla sfiducia nelle istituzioni, al mancato riconoscimento nei confronti dei rappresentanti politici attuali o alla poca aderenza ai temi trattati dalla politica. Tante volte, magari in maniera molto superficiale, mi sono anche sentita “superiore” nell’aver svolto il mio dovere civico mentre altre persone, che consideravo svogliate e disinteressate, non lo facevano. Non ero però mai arrivata alla consapevolezza che ci fosse anche un’altra causa alla base di tale fenomeno, probabilmente minoritaria, ma comunque esistente: una poca fiducia nelle proprie idee e una totale assenza di consapevolezza del reale potere delle stesse. Se una persona non va a votare perché crede che il proprio voto non conti a nulla, ammette implicitamente che le sue idee e decisioni valgono meno di quelle di un altro. E che la società possa farne a meno. Rimette all’altro tutto il potere di scelta in quanto non crede nel proprio. 

Se si analizzano i dati relativi all’affluenza alle elezioni, si può notare come ci sia una correlazione tra il tasso di astensionismo e diversi fattori tra cui spiccano le diseguaglianze socio-economiche. Dove c’è più povertà, economica ma anche culturale, c’è anche una minor affezione al voto e in generale una minore partecipazione alla vita politica. Hai mai pensato a quanto influiscono su di noi, su quello che siamo ma soprattutto sulla consapevolezza che abbiamo di noi e del valore delle nostre idee, l’ambiente che ci circonda, il contesto in cui siamo nati e cresciuti, la nostra situazione economica, la nostra famiglia, le scuole che abbiamo frequentato?

Tutto quello che abbiamo fatto, visto e ascoltato fino a questo momento ha contribuito a determinare quello che siamo e a costruire il nostro capitale simbolico, una serie di proprietà non materiali che abbiamo acquisito durante il corso della nostra vita e che ci accompagneranno per sempre: percorso scolastico, istruzione domestica, contatti sociali, opportunità culturali. E sarà proprio il capitale simbolico a determinare, per la maggior parte, quello che diventeremo. Così come contribuirà a modificare la nostra autostima e la percezione che abbiamo di noi, delle nostre idee e anche dei nostri sogni.

Non posso fare a meno di chiedermi se la presa di posizione, che alcune persone hanno, secondo la quale ci sono idee ed opinioni che non valgono la pena di essere espresse sia stata la diretta conseguenza di una società che non ha saputo valorizzare nel modo giusto le idee di tutti. E di istituzioni (familiari, scolastiche, politiche) che non sono riuscite a colmare diseguaglianze culturali ed economiche insite nella società. Queste diversità hanno finito per cristallizzarsi e coinvolgere non solo il piano economico e culturale. Si sono insinuate molto più profondamente arrivando a toccare la psicologia e l’emotività di ciascuno, diventando ancora più difficili da scardinare ed eliminare.

Di conseguenza oggi ci troviamo con una società divisa in due realtà apparentemente inconciliabili: da un lato, un’élite minoritaria che sceglie, decide e comanda; dall’altro,  persone comuni tra le quali moltissime tenute ai margini della società, su cui nessuno ha mai creduto ed investito e che ora, non solo non si sentono rappresentate dalla politica attuale, ma non hanno neanche contezza del loro potere decisionale e del fatto che, attraverso le loro idee ed azioni, potrebbero davvero cambiare la società. 

In una repubblica come quella italiana che è democratica e in cui la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, questo rappresenta un limite: come si può parlare di democrazia quando almeno la metà dei cittadini che dovrebbe esercitarla non riesce neanche a credere nel potere delle proprie idee?

Di tutto il mio percorso scolastico, c’è un episodio che mi è rimasto impresso e che mi piace ricordare per via dell’impatto psicologico che ha avuto su di me. Ero in secondo superiore quando, durante una lezione di italiano, la professoressa espresse un concetto che è rimasto scolpito dentro di me per sempre. Ci disse che non eravamo tutti uguali, che non tutti avremmo avuto il privilegio di sognare e di lottare per realizzare i nostri sogni e a volte, anche lottando ed impegnandoci, non tutti ce l’avremmo fatta a realizzarli.

Rimasi spiazzata da queste parole così crude e disturbanti per una ragazzina di quindici anni che fino a quel momento aveva creduto che il diritto di sognare fosse il più democratico tra i diritti. Proprietà di tutti e appannaggio di nessuno. Ma la mia professoressa aveva ragione. Non tutti possono permettersi il lusso di sognare e di credere di poter trasformare i propri sogni in idee e le idee in azioni. Ci sono persone nei cui sogni non ha mai creduto nessuno, nelle cui potenzialità non ha mai investito nessuno. E su cui nessuno scommetterebbe. Per queste persone diventa molto difficile anche soltanto immaginare di poter cambiare il mondo con una matita in mano.

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