Recensione di “La faccio breve”
I libri scritti bene non ti raccontano solo una storia, ma ti trascinano in svariate riflessioni personali, sociali, culturali e un’infinità di percorsi ancora. L’opera prima di Davide Di Lorenzo ha fatto con me esattamente questo, spingendomi ad un “touchè” spontaneo in chiusura di libro alla fine della lettura. Ma prima di addentrarmi nelle sinapsi sollecitate in questo processo riflessivo, vi dico qualcosa di più sul romanzo e sulla storia che Di Lorenzo ci riporta.
Facciamola breve
Davide ha 24 anni, è metà napoletano e metà ungherese, ha studiato a Bologna, sogna di diventare regista ma non è ancora sicuro della strada da imboccare. Lo incontriamo per la prima volta a Budapest — la città natale della madre — poi lo seguiamo attraverso tappe come Berlino e infine Roma.
Roma diventa il luogo del risveglio: un alloggio al Pigneto, nuove coinquiline, nottate a ballare, rientri rocamboleschi, stanchezza, risate, amore. In parallelo c’è un piccolo mistero — la ricorrenza di un uovo rotto sul pianerottolo — che ha qualcosa di simbolico, surreale, un espediente straniante che rompe la quotidianità.
Uno dei punti di forza del romanzo è la voce narrativa: diretta, sincera, spesso ironica, capace di oscillare fra umorismo e momenti di malinconia. Di Lorenzo non nasconde le incertezze del protagonista e lo fa con uno stile che sembra autentico, “artigianale” nel raccontare la vita vera, le sue piccole miserie e i suoi momenti luminosi.
Nonostante le lunghe digressioni dell’anima, il libro non annoia tenendo sempre viva l’attenzione con i tanti episodi che si susseguono, i dialoghi mai banali e scontati, i momenti fluviali e le alte punte emotive.
Accanto a Davide, è evidentemente protagonista il realismo emotivo, che Di Lorenzo mette nero su bianco senza batter ciglio, come la cosa più naturale che ci sia nel raccontare le evoluzioni della vita di un ventiquattrenne perennemente sull’orlo di una crisi (di gioia o felicità poco importa). I pensieri, i timori, le speranze del protagonista sono riconoscibili, vicini a chiunque abbia vissuto gli anni di passaggio fra giovinezza e indipendenza.
A spezzare tutta questa tensione emotiva, oltre al tono autoironico del protagonista, c’è questo uovo misterioso (presente anche in copertina) che attira l’attenzione del lettore su un altro ulteriore livello. Annunciato fin dalle prime pagine, la suspense intorno viene tenuta sempre ben alta, come ad illudere il lettore che il senso del romanzo sia tutto lì, nello scoprire che cos’è, che c’entra, cosa ha di speciale. Un elemento ricorrente che dà un tocco surreale e a tratti inquietante che rompe con il realismo altrimenti dominante.
Tanto a cui pensare
La prima riflessione spontanea è quella che sorge sul senso di appartenenza territoriale: qual’è davvero il proprio luogo, quello dove poi si sente di voler costruire qualcosa, di voler progredire, di perseverare, di rimanere? Davide passa attraverso innumerevoli luoghi ma la sensazione pare essere sempre la stessa: il corpo in bilico, sospeso, e l’anima che non riesce a darsi pace, in un continuo ON-OFF tra il provare e il rinunciare. Questo senso del presente si porta dietro ed è influenzato da tutto il vissuto del passato, che complica l’appartenenza e riempie ulteriormente di crisi e domande.
è venuta spontanea una lunga riflessione sul tema, constatando che spesso, non è il posto a fare casa, sia che si parli di una città sia che si parli di quattro mura, ma qualcosa che cambia interiormente e che può facilmente essere influenzato da altri fattori esterni. Così come può accadere, ed è del tutto normale, che nell’evoluzione della propria vita il luogo inizialmente designato possa perdere il suo ruolo e si debba tornare alla ricerca del senso di appartenenza altrove. A 24 anni trovo sia normale e lecito girovagare di città in città, di casa in casa, e dover ancora capire dove ci si sente davvero a posto, dove quell’anima ingarbugliata trova un po’ di pace.
Un processo normale che è strettamente collegato con la ricerca di sé, e mi collego alla seconda riflessione che questo libro ha scaturito. Il proprio percorso, professionale e di essenza, è davvero tortuoso, e spesso non si conclude con i primi tentativi di risoluzione e scoperta, ma richeide una certa pazienza e un certo costante lavoro quotidiano che può essere più o meno lungo. Il romanzo lo evidenzia bene mettendo in luce tutta la potenza della lotta interiore che si gioca dentro il petto, lo stomaco, la testa, il cuore, le vene. Mi è sorta una domanda, che vi lascio sospesa per trarre le vostre conclusioni, personali o meno: quando finisce, davvero, la ricerca di sé?
Ultimo grande tema presente è quello della solitudine, forse il più tortuoso su cui riflettere in un’epoca in cui siamo convinti di non esserlo assolutamente. Davide ci fa capire quanto ci sbagliamo: gli incontri, le serate, le amicizie precarie e le relazioni che cambiano spesso, non vogliono dire compagnia, cura, presenza, ma solo azione. Siamo tutte e tutti estremamente convinte/i di essere circondati da amicizie, qualcuna più stretta e qualcun’altra meno. Aimè, non è così. Si tratta di un iperconnessione virtuale che trasportiamo nel reale delle tante attività, ma che non si sposta mai a quella profondità per cui poi, davvero, smettiamo di sentirci soli. Cercando di essere onesta, la maggior parte delle volte ci troviamo circondati da persone ma ci sentiamo come se fossimo da soli nella nostra stanza, ovattati dal rimbombo intorno. Al contrario, capita spesso di sentirsi illusoriamente circondati di persone quando si è nella propria camera da letto a scrollare il feed di Instagram. Il più grande paradosso del nostro contemporaneo.
Ma l’uovo in copertina?
Nulla da aggiungere più di quanto già scritto sopra, se non sottolineare la genialità dell’utilizzo di questo uovo, consegnandogli il compito di rappresentare quel certo senso di straniamento rispetto al quotidiano, per rompere la ripetizione e suscitare domande. In che modo? Non posso dirvi di più, tocca leggete il libro (non ve ne pentirete).