Questa frase della giornalista Anna Garofalo fa da chiusura ad un altro film che ha contribuito in modo completamente diverso, ma ugualmente impattante, al discorso delle novità portate dal cinema femminile di cui si vuole trattare in questa rubrica. Con C’è ancora domani (2023), diretto da Paola Cortellesi, ci troviamo di fronte all’esordio da regista di un’attrice consolidata nel panorama cinematografico italiano e già impegnata nella lotta femminista in diverse occasioni. Come nella pellicola precedentemente analizzata, anche qui la trama è incentrata su una protagonista, Delia, che compie un viaggio verso la libertà attraverso l’emancipazione da una società misogina e oppressiva, ma in questo caso ad essere rappresentata è una vera e propria realtà di violenza domestica. Questa narrazione viene condotta in modo non scontato: temi come il femminismo e il patriarcato vengono affrontati con semplicità, in modo didattico e divulgativo, ma anche delicato, con il chiaro intento di arrivare a un pubblico più ampio. Questa operazione ha avuto un evidente successo, dato che il film è stato il più visto e quello con maggior incasso dell’anno 2023 e della stagione 2023/2024 nel nostro Paese, risultato ancora più notevole quando si pensa che la sua uscita non è stata accompagnata da una promozione pubblicitaria così gravosa e si è trattato maggiormente di un risultato del passaparola. È importante considerare, inoltre, la conseguente distribuzione internazionale e le svariate proposte di proiezione del film nelle scuole, nonché l’appello della regista stessa al Senato di «procedere uniti per far sì che le nuove generazioni ricevano, lungo tutto il percorso scolastico, un’adeguata formazione all’affettività e al rispetto, affinché imparino sin da piccoli che amare non significa possedere, e la violenza maschile sulle donne cessi di essere l’indegno fenomeno sociale che ogni giorno affligge il nostro Paese».
Nonostante le tematiche considerate “scomode” da una certa parte dell’audience, questo film è stato accolto con meno astio rispetto all’altro grande fenomeno cinematografico di quell’anno, Barbie. Mentre quest’ultimo ha voluto dimostrare il potenziale di una femminilità da sempre screditata come vuota appellandosi all’attualità, in C’è ancora domani è possibile un apparente distacco dato dall’ambientazione negli anni Quaranta. Potrebbe sembrare che non si rivolga direttamente a noi e che ad essere esposto sia un frammento del passato, ma la cultura che emerge da questo film è tutt’altro che superata. I riferimenti ad un mondo estinto sono molteplici: come società non tolleriamo più che in una relazione romantica vengano puntualmente propinati schiaffi (anche se la violenza domestica non è affatto debellata) o rimaniamo straniti all’idea dei matrimoni tra cugini a cui fa spesso riferimento il suocero di Delia. Eppure, tanti altri aspetti del film ammiccano direttamente a noi spettatori contemporanei, per ricordarci che abbiamo talmente assimilato alcuni comportamenti da non metterli in dubbio nemmeno oggi: le lavoratrici guadagnano ancora un salario uguale o inferiore a quello di un collega meno competente, e viviamo ancora in una società in cui il ruolo di cura assegnato alle donne (le quali devono lavorare, ma anche occuparsi continuamente dei famigliari e di tutta la casa) non viene particolarmente questionato. Tutto il film è impregnato di frasi che ad oggi sentiamo più spesso di quanto vorremmo, come quando a Delia viene ricordato – di continuo – che parla troppo e dovrebbe “stare zitta”. Per citare Michela Murgia riguardo a questa immortale espressione, «è come se nella testa di tutti (e tutte) ci fosse qualcosa di insopprimibilmente fastidioso nell’idea che una donna possa non solo avere un’opinione, ma addirittura contrapporla a quella di un uomo» e «di tutte le cose che possiamo fare nel mondo come donne, parlare e farlo in modo problematico è ancora considerata la più sovversiva».
La scena centrale, e probabilmente quella diventata più famosa, è quella della violenza, ritratta come una danza straniante tra marito e moglie, al fine di non spettacolarizzare il corpo femminile percosso ma ponendo a disagio chi guarda, visto che nei gesti non c’è nulla di romantico. In effetti, il marito è grottesco anche quando sembra tentare un miglioramento, in quanto uomo prodotto di una cultura violenta che lo asseconda, e non semplicemente stressato e in preda a raptus. Come espresso da Carlotta Vagnoli, la violenza non nasce mai da nulla; questa potrebbe anzi essere rappresentata da una piramide con alla base la normalizzazione di certi comportamenti che oggi più che mai è importante identificare come problematici ma visti ancora come potenzialmente “innocui” (linguaggio sessista, victim blaming), per poi passare alla creazione di una condizione di sottomissione (catcalling, stalking) e alla rimozione di autonomia (violenza economica), e culminare, infine, nella violenza psicologica e domestica, lo stupro e il femminicidio. Il pubblico, proprio in quanto appartenente alla stessa società raffigurata, è consapevole che quest’ultimo potrebbe essere un finale plausibile per la protagonista, ma è allora che le aspettative che il film crea vengono ribaltate.
Delia sembra oscillare tra rassegnazione e consapevolezza dell’esigenza di cambiamento; il desiderio di rompere con quel circolo vizioso avviene prima attraverso la figlia e in conclusione, finalmente, con il punto di arrivo del suo personale arco narrativo. La sua storia, infatti, non viene determinata da nessuno dei tre personaggi maschili (anche positivi) che vengono presentati, ma da sé stessa e dall’uso della sua voce: in questo caso, il diritto di voto, simbolo di emancipazione e di appropriazione del proprio ruolo e valore in società. Viene così svelato il percorso interiore che Delia ha condotto fin dall’inizio e che si compie con il recupero dell’identità individuale della donna, che la cultura violenta patriarcale minaccia costantemente di annientare. Alla luce di questo, è particolarmente adeguata la scelta di ornare la scena finale con A bocca chiusa di Daniele Silvestri, canzone che celebra esattamente il potere del popolo di poter dire la propria.
«E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi
Né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi
Con solo questa lingua in bocca
E se mi tagli pure questa
Io non mi fermo, scusa
Canto pure a bocca chiusa.»