Prima tappa: le origini arcaiche

Il mondo dell’arte è stato notoriamente dominato dagli uomini, tant’è che la prima donna ufficialmente ammessa agli studi artistici ci sarà solo nel XVI secolo. Ma questo primo ingresso fu un’eccezione, che non divenne immediatamente una regola. Anche se “informalmente”, prima dell’ingresso ufficiale nelle Accademie di Belle Arti, le donne sono sempre state sia davanti alla tela che dietro. 

Infatti, come ci ricorda Linda Nochlin, non è vero che non sono esistite grandi artiste, semplicemente non sono mai state ricordate. Tenere traccia dell’estro creativo femmineo è stato futile fino al secolo recente, dove le artiste sono riuscite pian piano ad emergere nel panorama culturale. Durante gli anni ‘70 del Novecento, sono nati studi specifici sulla materia, inseriti all’interno dell’ondata femminista, volti a recupare queste storie per poter dar loro dignità e valorizzarne il lavoro artistico. La volontà di recuperare le vite femminili che hanno creato arte lavorando “davanti alla tela”, ha permesso ad esperti di ottenere frammenti importanti della nostra storia. Eppure continua a mancare un piccolo pezzo del puzzle…

Le donne che in passato si trovavano a dover stare “dietro alla tela”? Chi sono? 

Perché vediamo i loro volti in ogni dove ma senza saperne i nomi? 

Nella narrazione ufficiale storico artistica, non solo si celebra principalmente l’estro creativo maschile, ma si tende ad eliminare il soggetto della loro “ispirazione”. Quando osserviamo volti finemente dipinti o abilmente scolpiti, almenoché non si tratti di rappresentazioni ufficiali, non ci poniamo quesiti sulla loro provenienza. Ipotizziamo che il meraviglioso volto di quella ninfa, o la regalità di quella Madonna siano frutto del genio dell’artista. Mentre la maggior parte di quei volti sono appartenuti a persone, nello specifico a donne, le cui storie sono state oscurate. All’interno delle opere d’arte, infatti, si nasconde un elemento spesso dimenticato o volutamente ignorato: la prostituzione. Queste donne, che hanno posato per i più grandi maestri, che hanno ispirato capolavori immortali, sono state sistematicamente relegate nell’ombra, spogliate della loro dignità e private di una qualsiasi tipologia di riconoscimento. Nell’utilizzare questo libero spazio di scrittura ci tengo a specificare che resterò all’interno del genere femminile e nell’uso non metaforico del termine, anche se alcuni sconfinamenti ci sono stati e ciò è inevitabile. Parlare di “prostitute come muse dimenticate”, può sembrare un iperbole, anche se gli esempi portati sono innumerevoli. Possiamo dire che non sono state le sole ispiratrici della creatività dell’arte, in ogni caso hanno svolto un ruolo importante almeno fino agli anni Cinquanta del Novecento.

Il corpo femminile e il suo sfruttamento sessuale sono parte integrante del processo artistico da tempo immemore, ancor prima di poterlo definire “artistico” ma semplice espressione umana. L’atto di “dare” il corpo delle donne per “ricevere”, poco importa se il soggetto lo fa volontariamente o involontariamente, ha generato la base di molteplici reperti archeologici essendo il fulcro di molteplici rituali primordiali. 

Ci tengo a specificare che in questo articolo parlerò di “atto” e di “prostituzione” poichè queste sono le espressioni utilizzate che si confaciono al contesto storico descritto, ciò non toglie rispetto alla ridefinizione contemporanea (più giusta e rispettosa)  di sex worker.

Questo primo pezzo del puzzle vuole ripercorrere proprio l’influenza della prostituzione, durante la strutturazione della prosfessione stessa, all’interno di queste arcaiche espressioni dell’umanità costituite da reperti, statuette votive e tracce di ogni tipo.

Le radici arcaiche di un legame indissolubile

Storicamente la prostituta è una figura che fa parte di tutte le culture, da quella occidentale e quella egiziana odorientale. Si tratta di un vero e proprio archetipo collocato vicino alla Gran madre e accanto ai culti legati alla sessualità, fondamentali nel mondo antico. Lo sfruttamento sessuale femminile genera iconografie e immagini, fin da prima che avesse tale definizione. Nell’antichità non si può parlare di “prostituzione” come la intendiamo oggi giorno, bisogna considerare l’atto di darsi sessualmente sotto compenso come un’azione volta alla sopravvivenza o divinatoria. 

Durante il periodo preistorico, stando agli antropologi non esisteva nemmeno quello che consideriamo il concetto di “coppia”, concetto che nascerà solo con la nascita delle prime civiltà e con il passaggio da vita nomade a stanziale. I nostri antenati praticavano il sesso come “baratto” senza dare a questo atto, una definizione morale o lavorativa, era semplicemente parte integrante del modo di vivere. Quella che verrà definita “arte preistorica” al suo interno conserva la traccia più strutturata, pervenuta fino al nostro nostro contemporaneo, del passato dell’umanità. In questa categoria rientrano le più svariate forme d’espressione umana: pitture rupestri, reperti, statuette votive e oggettistica varia. 

Questo lascito ci mostra un esempio di “pre-civiltà” scandita da una ritualizzazione naturale, fatta di culti e di momenti d’auspicio per la caccia, il raccolto e la sopravvivenza. 

I culti principali degli antichi, rientrano nel nostro focus poichè delineano quella che verrà definita dagli studiosi: “prostituzione rituale”. I reperti pervenuti fino a noi parlano di questi particolari riti, con  sculture che abbozzano i corpi femminei enfatizzando i punti sessuali e il ventre: le Veneri preistoriche. Non si tratta di rappresentazioni realistiche, ma probabilmente amuleti volutamente deformati per propiziare la fertilità femminile,e se sepolte nei campi, anche quella della terra; ed è per questo motivo che molte di queste statuette sono a punta.

In queste “Veneri”evidenziare gli attributi femminili ha un significato simbolico e magico: è l’esaltazione della donna come madre, come creatrice di un nuovo essere umano destinato a perpetuare la specie. Il corpo della donna era considerato partenogenetico, cioè si pensava che creasse da sé la vita, una caratteristica che veniva celebrata nella religione. Potremmo leggere all’interno di questo scambio una forma estremamente arcaica di prostituzione sacra: offrire sesso in cambio di protezionee fertilità. Questi erano definiti riti in onore della Grande Madre, la “dea unica” che gradualmente fu sostituita da più divinità e soprattutto da un’entità superiore maschile. Il principio dell’umanità segna l’inizio dei culti che costituiranno, in seguito religioni. In questo contesto nasce il concetto del “dare” per “ottenere”. 

Le prime civiltà e le eredi della Grande Madre

Le potenti dee ereditate dal neolitico si diffusero lungo tutta l’Europa, sviluppando e concretizzandone la ritualità. Infatti questa religione e utilizzo del corpo femminile influenzerà profondamente, in modi differenti, i popoli futuri. Prenderemo in esempio ,la civiltà che creò una ritualizzazione ufficiale della Grande Madre, pur non riservandole il ruolo di unica divinità. 

L’erede della Venere paleolitica non è più un’entità divina accentratrice che viene venerata, ma resta comunque la più importante conservando il ruolo di divinità multiforme. È rilevante per il nostro focus, poiché è stata colei alla quale fu dedicata la prima “forma ufficiale” di prostituzione sacra, testimoniata da più scritti. Qui comincia la professionalizzazione dell’atto, differenziandola da altre azioni quotidiane, e anche categorizzata in più tipologie.

L’entità alla quale verrà dedicata forma più alta di prostituzione, la prostituzione sacra, potremmo definirla la prima “ufficiale” musa dell’arte, aveva svariati nomi: Mylitta,Ishtar o nel suo nome semiticosumerico Innin/Inanna. La indicheremo con il nome di Ishtar, ella era la più importante divinità femminile mesopotamica,la cui natura e i cui attributi variarono a seconda del tempo e del luogo. Centro del suo culto era la città di Uruk, dove la dea aveva un tempio famoso,l’é-anna letteralmente “casa del cielo”. Aveva anche un altro appellativo, quello di”Grande Prostituta”. Veniva spesso rappresentata nell’atto brandire due bastoni e due anelli, simboli di divinità e potere. I suoi piedi erano artigli di gufo,e nelle rappresentazioni ufficiali, poggiavano spesso su due leoni.

Erodoto stesso ci racconta che secondo la tradizione, almeno una volta nella sua vita, ogni donna doveva recarsi al tempio della dea per prostituirsi a uno sconosciuto come rito di passaggio all’età adulto. Questa normativa valeva per le donne di ogni categoria sociale, una volta entrate nel tempio non potevano più andarsene finché uno straniero non aveva gettato una moneta d’argento nel loro grembo ripetendo la frase di rito: “Ti convoco in nome della dea Mylitta”. La donna non aveva il diritto di rifiutare la moneta, indipendentemente dal valore, soltanto dopo essersi concessa era libera di tornare a casa alle sue normali mansioni. Per lo storico questo era un atto religioso, un sacrificio al dio l’offerta dei primi frutti alla dea della fertilità. Abbiamo una vera e propria gerarchia all’interno di questi templi allestiti per la prostituzione: come sacerdotesse del tempio abbiamo le entu; accanto a loro vi erano le naditu, provenienti dalle più importanti famiglie del paese, che promettevano didedicare la loro vita al tempio; le qadishtu, donne sacre che servivano il tempio per un certo periodo senza voti particolare; le ishtaritu donne specializzate nelle arti della musica e della danza; e infine vi erano le donne comuni obbligate al servizio temproaneo. 

La dea non veniva onorata soltanto tramite questi simboli e rappresentazioni,nei suoi templi furono ritrovati oggetti votivi chiaramente legati alla sessualità,in particolare triangoli pubici: molti esemplari in terracotta sono stati rinvenuti nel suo tempio di Assur, e l’inventario del tesoro del tempio della dea Ishtar di Lagaba menziona una vulva in oro e otto in argento. E anche le sue stesse rappresentazioni parlano di un’accesa sessualità. Qui più che mai possiamo notare l’influenza delle rappresentazioni paleolitiche. Un’ispirazione che si muove tra il sacro e il divino, reperti che ci raccontano una società e una visione totalmente differente dal nostro contemporaneo. Le sculture e statuette votive ritrovate riprendono corpi femminili di cui sfortunatamente non abbiamo traccia di nomi, ma quantomeno siamo riusciti a ricostruire il loro contesto sociale a cui va data la giusta attenzione.



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