Dal culto della performance alla libertà di fallire.

La pervasività del “mito della performance”

Nella società contemporanea, il “mito della performance” si è radicato nel tessuto sociale: eccellere in tutti gli aspetti della vita è diventato un imperativo etico e morale. La figura dell’individuo è sottoposta alla valutazione altrui, tanto nei contesti professionali quanto in quelli sociali. Il successo è ridotto ad un insieme di metriche esterne e il risultato è una corsa affannata verso un ideale di perfezione inesistente che alimenta una spirale di insoddisfazione, portando l’individuo ad un confronto alienante con il proprio “io ideale” irraggiungibile. La produttività imperante non lascia spazio alla possibilità di vivere esperienze non performative, come il semplice “essere”, ostacolando la ricerca dell’autoconsapevolezza e dell’autenticità. In questa prospettiva, la performance diventa un culto e il fallimento un tabù. Il fenomeno del culto della performance alimenta una percezione distorta del valore individuale legato più ai risultati immediati e tangibili che all’esperienza emotiva reale e autentica. 

Essere e fallire 

In “Essere e tempo” Heidegger esplora il legame tra l’essere e la temporalità e afferma che l’uomo è un “esser-ci”, cioè un essere cosciente della propria esistenza e della propria finitezza. Essere umano significa essere destinato a fallire, nel senso di non poter raggiungere una realizzazione definitiva e assoluta del proprio sé. Se il pensatore tedesco vivesse nella nostra epoca, intitolerebbe la sua più grande opera “Essere e fallire”, affrontando l’ineluttabilità della fallibilità come parte costitutiva dell’esistenza umana. L’uomo moderno non sarebbe un essere-temporale, ma un essere-fragile. Essere e fallire espliciterebbe il fallimento non come evento, ma come caratteristica fondante dell’esperienza umana. Attraverso il fallimento, inteso come autocoscienza critica, l’individuo fa esperienza della propria finitezza. Infatti, ogni tentativo di risolvere il paradosso dell’esistenza, finisce per essere segnato dal fallimento, nel senso più profondo di mancato raggiungimento della perfezione. La perfezione, intesa come “completezza”, assenza di falle, di crepe, è un concetto che non trova riscontro nella realtà. L’esistenza umana non è perfetta e nessuna delle sue esperienze può esserlo. La parola “perfetto” dal latino “perfectus”, participio del verbo “perficere”( da “per” “completamente” e “facere” “fare”) suggerisce un’idea di completamento, di qualcosa che è stato portato a compimento nella sua totalità. Per Aristotele “il realizzarsi pienamente delle potenzialità dell’essere”, per Kierkegaard “tensione irraggiungibile”. La “perfezione” intesa come “completamento assoluto” è un ideale che non può essere raggiunto dall’uomo che è per natura “finito”, ed è pertanto irrealizzabile, in quanto ogni tentativo di raggiungimento implica un processo che non lascia spazio al “difetto”, alla “mancanza”. 

La fragilità come condizione universale 

L’etimologia della parola “fragilità” ci riporta al latino “fragilis”, che a sua volta deriva dal verbo “frangere”, cioè “rompere”. L’essere umano è soggetto al fallimento, alla disgregazione, alla rottura. La fragilità, dunque, è un segno profondo dell’esistenza umana, un tratto costitutivo della sua natura, una condizione ontologica ineludibile. Non si tratta di un aspetto contingente della vita, ma di una dimensione che definisce la nostra “umanità”. La fragilità segna la nostra finitudine, ma anche la possibilità di essere ciò che siamo senza artifici, né sovrastrutture e di vivere una vita autentica. Riconoscere la propria fragilità non significa arrendersi di fronte ad essa, bensì accettare la condizione umana nella sua interezza. Ed è in questa accettazione che risiede la grandezza dell’uomo, nel riconoscere la propria fragilità. E’ in questo spazio di autenticità che l’individuo può realizzarsi, trovando un equilibrio tra la sua tensione verso il miglioramento e l’accettazione dei propri limiti.

Il Kintsugi e la filosofia di Seneca 

Il filosofo romano Lucio Anneo Seneca, per descrivere la condizione dell’esistenza umana usa la metafora dell’uomo “vaso fragile”. In una lettera al suo amico Lucilio scriveva: “L’uomo è un vaso fragile che si rompe al minimo urto”. In questa breve citazione, il filosofo stoico si riferisce all’esistenza umana soggetta a continue rotture e all’accettazione virtuosa e consapevole della sua condizione. Il kintsugi, antica tecnica giapponese di riparazione della ceramica si fonde con la filosofia di Seneca. Il Kintsugi che consiste nel riparare oggetti in ceramica rotti, utilizzando l’oro e creando linee di riparazione, non nasconde le rotture ma le esalta, conferendo all’oggetto riparato un valore maggiore rispetto all’originale. Questo atto di valorizzazione delle rotture risuona con la filosofia di Seneca, la quale invita ad accogliere la propria fragilità: come il vaso rotto viene riparato con l’oro, l’uomo affronta le difficoltà, accetta le sue crepe, le sue mancanze, i suoi fallimenti, li mette in luce, esprimendo una bellezza nuova che proprio da queste deriva.

La libertà di fallire

Se l’essere umano è destinato a fare esperienza della propria fragilità e a fallire, vivere significa fare esperienza del mondo, anche se in modo incompleto e fallimentare. In quest’ottica, la libertà di fallire è una delle espressioni più autentiche dell’esperienza umana. Fallire significa agire senza la pretesa di raggiungere la perfezione. In questo modo ogni passo dell’uomo è segnato dal tentativo dell’errore e ogni fallimento può diventare un’opportunità di crescita, un insegnamento. Per essere liberi di fallire bisogna accogliere la propria fragilità, viverla come parte fondamentale dell’esperienza umana. L’accettazione della propria fragilità non è un atto passivo, bensì un esercizio quotidiano, una pratica che richiede cura, ascolto, riflessione e introspezione. Come scrive Alessandro D’Avenia nel suo libro “L’arte di essere fragili”, soltanto abbracciando la propria fragilità è possibile superare la paura del giudizio e del fallimento. La libertà di fallire nasce infatti da questa accettazione, e il fallimento in quest’ottica, non viene visto come un indicatore del valore personale, ma come una parte legittima del proprio percorso di crescita, una condizione in cui l’essere umano può esprimersi nella sua bellezza imperfetta. 



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